sabato 30 giugno 2012

La formazione professionale in Europa


"Come orientarsi” è una questione di metodo


Corrado Ziglio1


Avviso ai naviganti

E' ormai da 40 anni che mi occupo di comparazione educativa. Credo tuttavia che la mia specializzazione riguardi più la metodologia della comparazione. Gli approcci alla comparazione sono molteplici (statistico, economico, sociologico, filosofico, antropologico, giuridico, e via elencando) e a seconda del metodo utilizzato possiamo ottenere scenari diversi. Innanzitutto bisogna accertarsi di comparare patate con patate e piselli con piselli prima di passare a confronti, e accertarsi che le patate siano vere patate e i piselli veri piselli e non cose che assomigliano alle patate o ai piselli. Ci si deve cioè riferire a realtà e oggetti omogenei, altrimenti le comparazioni sono fasulle e ci fanno fare dei ragionamenti scorretti. In secondo luogo, spesso si cade nella trappola di estrapolare da un contesto solo quello che ci fa comodo.
Perché dico questo? Perché le soluzioni adottate in altri paesi, siano esse di ordine educativo o gestionale della scuola, vanno contestualizzate, capendone i meccanismi all'interno dei quali quelle soluzioni sono maturate, sono state studiate e poi applicate.
E' questo il motivo per cui la comparazione educativa debba fondarsi su due pilastri fondamentali: il contesto storico da una parte e l'antropologico culturale dall'altra. Storico perché noi non capiremmo mai lo stato delle istituzioni educative se non ne conosciamo l'evoluzione e lo sviluppo di quelle istituzioni; antropologico culturale perché si tratta di capire bene la cultura e il modo di pensare che reggono quelle istituzioni.
Sul piano storico, ad esempio, ha un grande peso sul versante dell’evoluzione di un sistema scolastico sapere che in Svezia l’istruzione primaria obbligatoria era stata imposta fin dal 1734 e che in Danimarca si puniva l’inadempienza all’obbligo scolastico a partire dal 1647.2 Mentre sul piano antropologico culturale, si provi a chiedere a un danese il concetto “fatta la legge, trovato l’inganno”: non esiste il corrispettivo idiomatico nella loro lingua.
In Europa abbiamo paesi dove tutti i cittadini pagano le tasse e paesi dove l’evasione fiscale e la corruzione (come la Grecia e l’Italia) tolgono enormi risorse al Welfare, e quindi alla scuola e a tutti gli apparati formativi di riqualificazione professionale.

Una grande foresta di informazioni

Oggi, a differenza di quando ho cominciato la mia carriera di comparatista, che dovevo viaggiare per l’Europa a cercare la documentazione (ricordo, ad esempio, i miei viaggi a Ginevra al Bureau International de l’Education e al Bureau international du Travail, che erano già informatizzati negli anni ’70), basta collegarsi in Internet e digitare parole-chiave. Ebbene, digitando “formazione professionale in Europa” vi escono dieci milioni e mezzo di voci. Bisogna quindi procedere ad aggiungere parole-chiave per restringere i campi. Ad esempio, basta aggiungere la parola “legislazione” e si visualizzano tutti i siti che riguardano gli aspetti legislativi della materia.
L’accesso alle stesse informazioni si possono ottenere entrando nei singoli siti di Centri specializzati. Per dare un saggio di panoramica, mi limito a indicarne qualcuno:
  • sito del Centro europeo per lo sviluppo della formazione professionale;
  • il portale dell’Eures che è relativo alla mobilità professionale, ma contiene il sito ufficiale dei sistemi educativi europei e della formazione professionale di tutti gli Stati membri dell’Unione Europea;
  • il portale della CGIL relativo alla formazione professionale in Europa che contiene tutta una serie di link specifici a cui approdare;
  • il sito del Cedefop Istruzione e formazione professionale in Europa che riporta tutte le relazioni nazionali che forniscono una panoramica aggiornata dei sistemi di istruzione e di formazione professionale esistenti negli Stati membri;
  • Il programma Leonardo che sostiene il miglioramento e l’innovazione della formazione professionale in Europa;
  • Il portale della Fondazione europea per la formazione professionale dove vengono proposte strategie per rendere interessante la formazione professionale;
  • Il portale del Fondo Sociale Europeo sui sistemi di finanziamento della formazione professionale;
  • Il sito dell’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale sul come accedere alla più grande e completa collezione d’Europa sulla letteratura in materia;
E via di questo passo…

Da queste informazioni si possono ricavare e costruire tabelle comparative su ogni singolo problema. Ma, attenzione! Anche le informazioni corrette possono farci prendere delle cantonate. La mia esperienza di comparatista mi dice che una volta raccolte le informazioni, è fondamentale applicare una metodologia etnografica, cioè andare sul posto a raccogliere tutte le informazioni possibili per capire i meccanismi di realizzazione perché i modelli istituzionali, da soli, possono addirittura risultare ingannevoli.
Ricordo che mi trovavo in Inghilterra quando in Italia si era sviluppato il discorso sull'autonomia scolastica e l'atteggiamento più diffuso era quello di guardare agli altri paesi per copiare delle formule da attuare nel nostro: non c'è niente di più scorretto di questo modo di pensare. Non solo perché in ogni paese c'è una linea evolutiva che ha portato ad adottare quelle soluzioni, ma c'è pure un modo di pensare e una cultura che fa sì che una identica soluzione se applicata in Svezia si ottengano certi risultati e se applicati in Spagna se ne ottengano degli altri. Un esempio? Prendiamo la questione relativa al fatto se un preside possa assumere e licenziare gli insegnanti. In Inghilterra (che è il paese che conosco meglio per averlo frequentato per le mie ricerche) al capo di istituto è concessa questa prerogativa, ma 1° è un professionista che ha una formazione specifica non solo di "management scolastico" relativo alla gestione della scuola ma anche di "management educativo" relativo alla gestione dei rapporti con i suoi insegnanti e gli allievi del suo istituto; 2° il suo operato è sottoposto a periodiche ispezioni da parte degli "ispettori della corona" (così si chiamano), attenti a verificare non solo le scelte adottate dal capo d'istituto ma anche le ricadute di quelle scelte sul piano della didattica e sul clima complessivo della scuola; 3° il capo d'istituto deve rispondere alla comunità locale attraverso le rappresentanze delle istituzioni o gruppi che hanno un qualche interesse col mondo della scuola: i genitori degli alunni, i servizi socio-sanitari, le istituzioni culturali del territorio, le imprese e il mondo del lavoro, la pubblica amministrazione, le comunità religiose, ecc. ecc. Se in Italia si adottasse la formula dell'assunzione/licenziabilità degli insegnanti da parte dei presidi senza garanzie di regole e di norme etiche, si potrebbero prevedere delle situazioni molto peggiori rispetto alla situazione attuale. Il nostro è un paese delle clientele e non della professionalità. E se in Italia i presidi potessero assumere gli insegnanti, sarebbero travolti da mille pressioni: non solo da tutti i centri di potere presenti sul territorio, ma anche dagli amici o dagli "amici degli amici". Nel nostro paese non c'è una tradizione che premia l'efficienza e la bravura né una cultura che privilegi la professionalità rispetto ai rapporti clientelari di qualsiasi natura. Non solo: in molti casi verrebbe preferibilmente assunto o cooptato chi dimostra di essere uno "yes man" anziché uno "bravo".
E' chiaro, allora, quanto sia non solo riduttivo ma anche sbagliato estrapolare la formula, qualsiasi formula, senza capire né i meccanismi né il contesto in cui è maturata quella formula? E di formule, nel campo della formazione professionale, ce ne sono veramente tante, ma adottarle senza indagare etnograficamente come vengono realizzate, diventa un esercizio privo di senso.

Il vero, grande problema

Se dovessi suddividere i paesi europei secondo una categoria ampia, li suddividerei in “pragmatici” e in “ideologici”.
Da mesi, nel nostro Paese, si discute sull’articolo 18 tra un “No, non si tocca” e un “Non è un tabù. Si può rivedere”. Ora, come si fa a mettere in discussione la “giusta causa”? Sarebbe un ritorno alla barbarie. Tuttavia il problema non può essere impostato in termini ideologici. Il vero problema sono le lungaggini giudiziarie: non è concepibile aspettare 4 anni per arrivare a sentenza su un contenzioso di lavoro. Perché non pensare ad una figura di giudice del lavoro – analogo alla figura del giudice di pace – che nel giro di un mese risolve il contenzioso? L’ideologia acceca, come la rabbia. Ma come mai a nessuno è venuto in mente di trovare un accordo, onorevole per tutti, di stile pragmatico? Perché tutti sono arroccati ideologicamente al problema.
Dico questo perché uno dei fattori che impedisce l’occupazione giovanile nel nostro Paese è lo scollegamento tra istruzione professionale e imprese. Per decenni questo problema è stato dibattuto ma se andiamo a vedere i dibattiti, da quelli parlamentari a quelli sindacali a quelli culturali, è disarmante l’approccio ideologico.
Accennavo poco fa al fatto che in Inghilterra (ma questo è vero anche nel resto del Regno Unito e in molti altri paesi dell'Europa del Nord) uno dei tanti rapporti della scuola è con il sistema delle imprese e del mondo del lavoro. Ebbene, questo è un elemento cruciale da mettere in relazione con la problematica dell'autonomia. Ma anche qui non si può limitarsi ad argomentare il "dato" della possibilità di rapporti tra scuola e imprese; bisogna capirne regole e comportamenti.
Innanzitutto non sarebbe mai tollerata una subordinazione della scuola alle esigenze dell' impresa; semmai succede il contrario in cui è l'impresa che viene usata dalla scuola come campo di studio capace di costituire un laboratorio di analisi e di elaborazione teorica delle conoscenze scolastiche. Secondariamente, proprio perché in molti paesi dell’Europa del nord è da qualche decennio che le imprese sono coinvolte nelle problematiche scolastiche, è probabile che abbiano anche maturato una particolare attenzione e rispetto per la scuola e la formazione. Ci raccontava un preside inglese che i rappresentanti degli imprenditori della sua scuola raccomandavano agli insegnanti di lavorare molto sugli errori degli studenti in qualsiasi materia perché è dalla gestione dell'errore che si costruisce una cultura imprenditoriale. Questo è un ragionamento straordinario. Ma nelle nostre scuole, invece, gli errori degli studenti vengono puniti severamente, sprecando così una delle principali opportunità di formazione.
Mentre noi, in Italia, continuavamo a scannarci ideologicamente, nei paesi scandinavi avevano trovato, pragmaticamente, modelli di collaborazione tra istituti professionali e imprese di reciproco vantaggio. Fin dall'inizio degli anni '70, ad esempio, nei licei professionali (capito bene? Licei professionali perché lì gli studenti studiano anche filosofia) di Oslo, in Norvegia, il sistema delle imprese poneva alle scuole interrogativi come questo: "come posso risolvere un problema legato al risparmio energetico salvaguardando livelli di produzione e posti di lavoro?" Insegnanti e studenti studiavano assieme tutti gli aspetti dell'impresa che aveva sottoposto il quesito. Sia la scuola che l'impresa erano diventati laboratori di analisi, di studio e di riflessione. Tutte le conoscenze teoriche acquistavano senso. Mai si era verificato, come in quel tipo di formazione, una assunzione di responsabilità sia degli insegnanti che degli allievi. Mai si era insegnato tanto e studiato tanto. I resoconti di quella esperienza ci dicono che il problema venne risolto brillantemente, ma anche se non fosse stato risolto, questa esperienza era in grado di suggerire una tipologia di impostazione di rapporti tra mondo del lavoro e mondo della formazione.3
Sono passati 40 anni e loro, di strada, ne hanno fatta tanta. Nel nostro paese invece tutto questo è ancora da costruire, a cominciare da una professionalità degli insegnanti, ad una correttezza e rispetto reciproco tra sistema delle imprese e mondo della formazione. E' sinceramente difficile pensare che l'autonomia scolastica possa risolvere anche questo tipo di problema quando non si è fatto nulla per capire da parte del sistema delle imprese che la cultura dell'imprenditorialità si gioca sui banchi di scuola e da parte della scuola che il rapporto con le imprese e il mondo del lavoro non deve essere considerato peccaminoso.

Se non facciamo gli etnografi, “lasciamo le comparazioni alle Sibille”

Gli etnografi, che sono antropologi che lavorano sul campo, alla Levì- Strauss, tentano di decifrare le culture e con esse, i modi di pensare, comprese le virgole dei significati dei concetti espressi da quella cultura. Se non si fa questo lavoro, per il grande etnologo Pierre Erny4, non ci sarà nulla da comparare.
Il titolo di questo paragrafo è senz'altro curioso e dico subito che l'ho trovato in un testo erotico del '500, semi incomprensibile per me per via del linguaggio cinquecentesco, dal titolo "Ragionamento della Nanna e della Antonia", di Pietro Aretino. Tutto ad un tratto, appare questa frase comprensibile dal punto di vista linguistico, ma altrettanto oscura dal punto di vista del contenuto. Per me, invece, è risultata di una straordinaria forza sul piano concettuale. Tutti sappiamo quanto le cose dette dalle Sibille potevano rivelarsi interpretabili in modi addirittura opposti. Ricordiamo la storia e la profezia della Sibilla Cumana. Un grande condottiero, dovendo partire per la guerra, va dalla Sibilla e le chiede se tornerà dalla guerra. La Sibilla gli risponde: “ibis redibis non morieris in bello”, che significa “andrai ritornerai non morirai in guerra”. Il condottiero parte confortato e invece muore in battaglia. Avendo raccontato, prima di partire per la guerra, il responso della Sibilla ai suoi compagni, questi tornarono da lei a chiedere spiegazioni. E lei ripeté l’oracolo: “ibis redibis non morieris in bello”, ma questa volta il verdetto lo scandì come se mettesse le virgole: “ibis, redibis non, morieris in bello”. Il grande condottiero aveva capito: “andrai, ritornerai, non morirai in guerra”, invece il responso della Sibilla era: “andrai, non ritornerai, morirai in guerra”.
Bisogna stare attenti alle virgole!
Ebbene, nell'ambito della comparazione educativa succede esattamente la stessa cosa se i "dati" di cui disponiamo non sono ricondotti dentro il contesto che li ha prodotti. Possono cioè benissimo essere "presi" e rovesciati rispetto a ciò che sono e rappresentano realmente. Basta cambiare una virgola ideologica, etica, giurisprudenziale, di significato culturale, ecc. perché le cose cambino radicalmente.
Se vogliamo capire bene le cose, dobbiamo far sì che le comparazioni di prodotto siano sorrette dalle comparazioni di processo. Le formule - le comparazioni di prodotto - si prestano alle più contrastanti e contrapposte interpretazioni a seconda di come la pensiamo: la possibilità da parte di un preside di assumere o licenziare gli insegnanti, per alcuni può significare un atto di potere, per altri un atto di responsabilità nei confronti della collettività.
Per questo sono convinto che se non si ricercano i significati culturali, e le procedure attraverso cui questi si esplicitano, ci sia poco da comparare.
Io non pretendo che si raggiungano i livelli di complessità di analisi elaborati e raggiunti dagli etnologi, i quali ci avvertono che una analisi del quotidiano, attraverso gli atti, i riti, i discorsi, i ragionamenti, le rappresentazioni, ecc., costituisce la prima tappa di chiunque pretenda di studiare un gruppo, e che una eventuale comparazione presuppone un tale lavoro di descrizione, di analisi e di sintesi, senza il quale non ci sarà nulla da comparare - come loro sostengono -, ma certo si possono realizzare dei lavori che quantomeno recepiscano quegli orientamenti e quelle linee-guida se si vuole raggiungere un minimo di crescita sul piano conoscitivo delle realtà educative degli altri.
Le comparazioni di processo sono dunque ciò che propongo. Solo allora possiamo capire le differenze, le somiglianze, le caratteristiche comparabili e quelle non comparabili. Troppe sono le trappole e le insidie che si celano dietro concetti che consideriamo univoci e che invece non lo sono, e che solo un'analisi sul campo ci consente di capire cosa ne è stato fatto di quel concetto. Pensate forse che "la libertà di insegnamento" abbia lo stesso significato qui da noi come nel Regno Unito o in Germania o in Svezia? Ma nemmeno per sogno! Dappertutto se ne parla, ma la traduzione sul terreno operativo si distanzia enormemente da paese a paese. Finché non andremo a verificare sul campo (e gli strumenti e le possibilità oggi non mancano) il "come" si realizzano i fatti educativi saremo sempre vittime del "dato" (o del "preso"?) che, essendo svincolato dal suo procedimento lascia spazio alle interpretazioni che più corrispondono ai propri interessi e alle proprie convinzioni.

Per concludere, si possono ribadire due concetti: il primo riguarda la necessità, quando ci si confronta con realtà diverse dalla nostra, di capire bene i meccanismi e i processi attraverso cui altri paesi hanno adottato certe soluzioni; il secondo riguarda il fatto che, avendo constatato la bontà di certe soluzioni, si inizi un percorso di rielaborazione di quelle soluzioni per calarle in maniera intelligente nella nostra realtà culturale. In quei paesi dove esiste una tradizione culturale di efficienza delle strutture pubbliche (e quindi anche della scuola), possono permettersi di fare cose per noi inimmaginabili, ma se quelle cose fossero applicate nel nostro paese, avendone copiato solo la formula, potrebbero rivelarsi soluzioni disastrose.
La comparazione deve essere solo uno strumento di sollecitazione, ma sta a noi inventarci, con le nostre caratteristiche culturali, i modi migliori per far diventare la scuola quel luogo straordinario di formazione delle intelligenze.
Se, al contrario, siamo preda e vittime delle formule orientando la ricerca comparata verso le comparazioni di prodotto, beh, allora si addice benissimo ciò che scriveva Pietro Aretino, di lasciare le comparazioni alle Sibille.


Note

1 Professore associato, Università di Bologna
2 Cfr. Giuseppe Inzerillo, Storia della politica scolastica in Italia, Editori Riuniti, Roma 1974.
3 Cfr. gli opuscoli degli anni ’70 del CERI (Centre pour la recherche et l’innovation dans l’enseignement), pubblicati a Parigi dall’OCDE (Organisation de Cooperation et de développement économiques). In particolare, cfr. Ceri, L’école e la collettivité, OCDE, Paris Cedex, 1975.
Pierre Erny, Anthropologie de l’education, Presse Universitaire de France, Paris 1981.

"Riforma della scuola” n° 14