sabato 30 giugno 2012

Tabucchi e l'essere scrittore

Gianni Ghiselli

La scomparsa di Tabucchi induce a leggerlo nuovamente. Iniziando, magari, dal suo libro più noto, Sostiene Pereira, del '94 .
Insegna che l’intellettuale, lo scrittore, l’artista non possono sottrarsi all’ impegno politico che è anche impegno morale.
Roberto Faenza ne ha tratto un film con lo stesso titolo del romanzo, un film molto bello, che Rai Tre ha subito riproposto,dopo la morte dello scrittore.
Il romanzo e la sua trasposizione cinematografica dovrebbero rammentare a tutti noi, quanti studiamo, insegniamo, scriviamo, che la cultura non può essere neutrale e che l’uomo portatore di cultura e di paideia, che è educazione degli uomini, deve schierarsi, e non da una parte qualunque, ma da quella dei deboli, degli oppressi dal potere. Leggo in una lettera di Tabucchi a Paolo di Paolo: “Essere scrittore non vuol dire solo maneggiare le parole. Significa soprattutto stare attenti alla realtà circostante, alle persone, agli altri”. 
Tanti scarabocchiatori libreschi, avidamente chini sul becchime delle loro gabbie, discettano intorno al proprio ombelico, come se fosse il centro del mondo. Se esprimono un dissenso, questo è solo retorico, mai veramente scomodo verso chi riempie di cibo le loro gabbie, greppie e pance. Schopenhauer definiva “boschēmata” simili intellettuali e professori. Una parola greca, non tedesca, e significa bestiame, bestiame che si pasce.
Facciamo un breve excursus su altri autori che hanno trattato il problema.
Il grande storiografo Tucidide, colui che ha identificato la storia con la politica e ha indicato per primo, coraggiosamente, “la verità effettuale” di uomini e cose, aprendo la strada a Polibio, Tacito e Machiavelli, ha ricordato un discorso pubblico di Pericle, il famoso lógos epitáfios, nel quale il grande statista disse che gli Ateniesi consideravano non pacifico, ma inutile il cittadino che non si occupa di politica, ossia della vita della polis.
Thomas Mann sostiene che l’artista vive una vita simbolica, di rappresentanza, come il principe regnante. Lo scrittore, come il re, deve negare a se stesso la banalità del comune borghese per esprimersi solo in maniera simbolica. Chi scrive, ha il dovere, come insegnano il romanzo di Tabucchi e il film di Faenza, di rischiare, di dare un esempio, di mettere in gioco perfino la propria vita. Del resto Pereira mettendo a repentaglio la sua vita, prima fiacca e dimidiata, vince la posta e ritrova intera la propria forza vitale: quella di scrittore, di uomo, di intellettuale. Il rischio talora è bello come scrive Platone, nella "Repubblica".
Pasolini ha scritto che" il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi-proprio per il modo in cui è fatto-dalla possibilità di avere prove e indizi". Infatti nel noto articolo del “Corriere della sera” del 14 novembre 1974, scriveva anche: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina anche fatti lontani, che mette insieme pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia, il mistero”.
Pasolini fa parte del gruppo degli scrittori martiri, Pereira invece riesce a cavarsela, e senza demerito. Il film di Faenza nelle ultime inquadrature mostra lo scrittore di Lisbona che rivitalizzato dalla scelta politica e morale compiuta, si allontana dal suo paese oppresso dalla dittatura di Salazar. Continuerà a scrivere politicamente altrove.
Il potere tollera il dissenso solo se questo è retorico, o ambiguo, comunque non scomodo, talora anzi tale fronda è perfino indirettamente funzionale a chi comanda davvero.
La chiacchiera degli imbonitori televisivi per lo più è fatta di vuoto: arzigogoli e ghirigori che non dicono nulla e offuscano con la loro verbosità perfino le verità più comuni e più comprensibili, mentre il discorso della verità è semplice, e quanto è conforme a giustizia non ha bisogno di interpretazioni ricamate.

Ma ora, è già tempo, concludo tornando, doverosamente, al bel libro di Tabucchi. Partiamo dal cognome del protagonista eponimo. In una nota finale l’autore chiarisce che “In portoghese Pereira significa albero del pero, e come tutti i nomi degli alberi da frutto, è un cognome di origine ebraica, così come in Italia i cognomi di origine ebraica sono nomi di città”. E aggiunge: “Con questo volli rendere omaggio a un popolo che ha lasciato una grande traccia nella civiltà portoghese e che ha subito le grandi ingiustizie della Storia”. La lettura del libro in effetti suscita simpatia per tutti i perseguitati, per ogni uomo che subisce ingiustizia, e insegna il dovere dell’impegno di ogni persona onesta in loro favore. Ma vediamo alcuni punti cruciali del romanzo. All’inizio, siamo nell’estate del 1938, Pereira è un letterato senescente, grasso, stanco, malato di cuore e di spirito. Dirige la pagina culturale di un piccolo giornale del pomeriggio, traduce romanzi francesi, e vive di ricordi. Soprattutto di quello della moglie morta di tisi.
Ma poi fa degli incontri, con due ragazzi che “gli curano l’anima, come facevano i bambini con l’Idiota di Dostoevskij. Più tardi conosce un dottore che lo incoraggia a una dieta e, soprattutto, lo aiuta a prendere coscienza di se stesso, a diventare quello che è: un uomo buono e intelligente, capace di staccarsi da quel suo vivere nel passato, un vivere ozioso, inutile, impolitico insomma. Lo esorta a non trascurare quelle ragioni del cuore che i due giovani dissidenti e oppositori del regime filofascista di Salazar hanno messo in moto, chiedendogli aiuto. La stessa letteratura, se è buona, ci dà stimoli verso una vita attiva, impegnata e impiegata per il prossimo. Più della filosofia, suggerisce Tabucchi: a Pereira, mentre dialogava con il giovane Monteiro Rossi che “di solito parlava di filosofia… venne in mente una frase che gli diceva sempre suo zio, che era un letterato fallito, e la pronunciò. Disse: la filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di fantasie, ma forse dice la verità”. E’ un’espressione di quella antica ruggine tra filosofi e poeti ricordata dal Socrate di Platone o avvertita dall’Ulrich di Musil.
Pereira fa un altro incontro che lo spinge verso il disseppellimento della propria identità, inumata sotto ricordi e rimpianti, e coperta dalla vegetazione di questi vani pascoli degli spiriti disoccupati. Si tratta di una signora, una ebrea-tedesca di origine portoghese, una cosmopolita dunque, incontrata in treno, che lo mette di fronte ai suoi doveri: “lei è un intellettuale, dica quello che sta succedendo in Europa, esprima il suo libero pensiero, insomma faccia qualcosa”. Pereira replica che lui non è Thomas Mann, ma la donna lo incalza: “Capisco, ma forse tutto si può fare, basta averne la volontà”.
Segue l’intesa e l’amicizia con un medico della clinica talassoterapica dove Pereira va a curarsi. Il giovane dottor Cardoso, che si diletta di letteratura francese e di psicologia, gli parla dell’evento, un avvenimento imprevisto “che si produce nella vita reale e sconvolge la vita psichica”. Sono quegli avvenimenti accidentali di cui parla Lucrezio . Non si tratta di qualità congiunte ai corpi (coniuncta), come il rosso del sangue per esempio, ma sono accidenti che certamente influiscono sulla nostra vita. Lucrezio enumera alcuni di questi eventa: la schiavitù, la povertà, la ricchezza, la libertà, la guerra la concordia. Gli eventi di Pereira sono questi incontri con persone significative, che lo colpiscono, cui presta attenzione. Il dottore gli insegna pure che dentro di noi c’è “una confederazione di anime e che ogni tanto c’è un io egemone che prende la guida della confederazione”.
Pereira un poco alla volta prende coscienza di un suo nuovo io. Intanto il regime di Salazar diventa sempre più spudorato e feroce. Manda in Spagna, a combattere per Franco, un battaglione, intitolato a Viriato, usurpando il nome del capo dei Lusitani ribelli ai Romani poco dopo la metà del II secolo a. C.
Il fatto risolutivo però è l’assassinio del ragazzo Monteiro Rossi nel quale Pereira vedeva quasi il figlio mancato suo e della moglie morta con la foto della quale parlava mentre lei lo guardava “con un sorriso lontano”. Se avessero avuto un figlio il vecchio letterato, l’umbraticus doctor, si sarebbe sentito meno solo e meno desolato. Tre tangheri dunque irrompono in casa di Pereira dove si era rifugiato Monteiro e ammazzano di botte il ragazzo. Quindi intimano al giornalista di non parlare minacciandolo di morte. E’ una sera di fine estate, e il vecchio quella sera dimentica la sua prudenza, le paure, la sua impoliticità, e concede il potere al nuovo io egemone, coraggioso e battagliero, denunciando l’orribile crimine dei sicari del regime con un articolo di fuoco che riesce a fare stampare e pubblicare con uno stratagemma e con l’aiuto dell’amico Cardoso. Le ragioni del cuore e quelle della testa si erano finalmente riconosciute a vicenda e avevano fatto un’alleanza davvero santa.
Nella scena finale del film di Faenza, Mastroianni-Pereira si avvia rivitalizzato verso la libertà, probabilmente in Francia.
Sono grato a Tabucchi e a Faenza poiché con i loro lavori hanno contribuito ad accrescere la mia vita.

“Riforma della scuola” n° 14