La
scomparsa di Tabucchi induce a leggerlo nuovamente. Iniziando,
magari, dal suo libro più noto, Sostiene
Pereira, del '94 .
Insegna
che l’intellettuale, lo scrittore, l’artista non possono
sottrarsi all’ impegno politico che è anche impegno morale.
Roberto
Faenza ne ha tratto un film con lo stesso titolo del romanzo, un film
molto bello, che Rai Tre ha subito riproposto,dopo la morte dello
scrittore.
Il
romanzo e la sua trasposizione cinematografica dovrebbero rammentare
a tutti noi, quanti studiamo, insegniamo, scriviamo, che la cultura
non può essere neutrale e che l’uomo portatore di cultura e di
paideia,
che è educazione degli uomini, deve schierarsi, e non da una parte
qualunque, ma da quella dei deboli, degli oppressi dal potere. Leggo
in una lettera di Tabucchi a Paolo di Paolo: “Essere
scrittore non vuol dire solo maneggiare le parole. Significa
soprattutto stare attenti alla realtà circostante, alle persone,
agli altri”.
Tanti scarabocchiatori libreschi, avidamente chini sul becchime delle loro gabbie, discettano intorno al proprio ombelico, come se fosse il centro del mondo. Se esprimono un dissenso, questo è solo retorico, mai veramente scomodo verso chi riempie di cibo le loro gabbie, greppie e pance. Schopenhauer definiva “boschēmata” simili intellettuali e professori. Una parola greca, non tedesca, e significa bestiame, bestiame che si pasce.
Tanti scarabocchiatori libreschi, avidamente chini sul becchime delle loro gabbie, discettano intorno al proprio ombelico, come se fosse il centro del mondo. Se esprimono un dissenso, questo è solo retorico, mai veramente scomodo verso chi riempie di cibo le loro gabbie, greppie e pance. Schopenhauer definiva “boschēmata” simili intellettuali e professori. Una parola greca, non tedesca, e significa bestiame, bestiame che si pasce.
Facciamo
un breve excursus su altri autori che hanno trattato il problema.
Il
grande storiografo Tucidide, colui che ha identificato la storia con
la politica e ha indicato per primo, coraggiosamente, “la verità
effettuale” di uomini e cose, aprendo la strada a Polibio, Tacito e
Machiavelli, ha ricordato un discorso pubblico di Pericle, il famoso
lógos
epitáfios,
nel quale il grande statista disse che gli Ateniesi consideravano non
pacifico, ma inutile il cittadino che non si occupa di politica,
ossia della vita della polis.
Thomas
Mann sostiene che l’artista vive una vita simbolica, di
rappresentanza, come il principe regnante. Lo scrittore, come il re,
deve negare a se stesso la banalità del comune borghese per
esprimersi solo in maniera simbolica. Chi scrive, ha il dovere, come
insegnano il romanzo di Tabucchi e il film di Faenza, di rischiare,
di dare un esempio, di mettere in gioco perfino la propria vita. Del
resto Pereira mettendo a repentaglio la sua vita, prima fiacca e
dimidiata, vince la posta e ritrova intera la propria forza vitale:
quella di scrittore, di uomo, di intellettuale. Il rischio talora è
bello come scrive Platone, nella "Repubblica".
Pasolini
ha scritto che" il potere e il mondo
che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere,
ha escluso gli intellettuali liberi-proprio per il modo in cui è
fatto-dalla possibilità di avere prove e indizi".
Infatti nel noto articolo del “Corriere della sera” del 14
novembre 1974, scriveva anche: “Io so. Ma non ho le prove. Non ho
nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore,
che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò
che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si
tace; che coordina anche fatti lontani, che mette insieme pezzi
disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico,
che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà,
la follia, il mistero”.
Pasolini
fa parte del gruppo degli scrittori martiri, Pereira invece riesce a
cavarsela, e senza demerito. Il film di Faenza nelle ultime
inquadrature mostra lo scrittore di Lisbona che rivitalizzato dalla
scelta politica e morale compiuta, si allontana dal suo paese
oppresso dalla dittatura di Salazar. Continuerà a scrivere
politicamente altrove.
Il
potere tollera il dissenso solo se questo è retorico, o ambiguo,
comunque non scomodo, talora anzi tale fronda è perfino
indirettamente funzionale a chi comanda davvero.
La chiacchiera degli imbonitori televisivi per lo più
è fatta di vuoto: arzigogoli e ghirigori che non dicono nulla e
offuscano con la loro verbosità perfino le verità più comuni e più
comprensibili, mentre il discorso della verità è semplice, e quanto
è conforme a giustizia non ha bisogno di interpretazioni ricamate.
Ma
ora, è già tempo, concludo tornando, doverosamente, al bel libro di
Tabucchi. Partiamo dal cognome del protagonista eponimo. In una nota
finale l’autore chiarisce che “In portoghese Pereira significa
albero del pero, e come tutti i nomi degli alberi da frutto, è un
cognome di origine ebraica, così come in Italia i cognomi di origine
ebraica sono nomi di città”. E aggiunge: “Con questo volli
rendere omaggio a un popolo che ha lasciato una grande traccia nella
civiltà portoghese e che ha subito le grandi ingiustizie della
Storia”. La lettura del libro in effetti suscita simpatia per tutti
i perseguitati, per ogni uomo che subisce ingiustizia, e insegna il
dovere dell’impegno di ogni persona onesta in loro favore. Ma
vediamo alcuni punti cruciali del romanzo. All’inizio, siamo
nell’estate del 1938, Pereira è un letterato senescente, grasso,
stanco, malato di cuore e di spirito. Dirige la pagina culturale di
un piccolo giornale del pomeriggio, traduce romanzi francesi, e vive
di ricordi. Soprattutto di quello della moglie morta di tisi.
Ma
poi fa degli incontri, con due ragazzi che “gli curano l’anima,
come facevano i bambini con l’Idiota di Dostoevskij. Più tardi
conosce un dottore che lo incoraggia a una dieta e, soprattutto, lo
aiuta a prendere coscienza di se stesso, a diventare quello che è:
un uomo buono e intelligente, capace di staccarsi da quel suo vivere
nel passato, un vivere ozioso, inutile, impolitico insomma. Lo esorta
a non trascurare quelle ragioni del cuore che i due giovani
dissidenti e oppositori del regime filofascista di Salazar hanno
messo in moto, chiedendogli aiuto. La stessa letteratura, se è
buona, ci dà stimoli verso una vita attiva, impegnata e impiegata
per il prossimo. Più della filosofia, suggerisce Tabucchi: a
Pereira, mentre dialogava con il giovane Monteiro Rossi che “di
solito parlava di filosofia… venne in mente una frase che gli
diceva sempre suo zio, che era un letterato fallito, e la pronunciò.
Disse: la filosofia sembra che si occupi solo della verità, ma forse
dice solo fantasie, e la letteratura sembra che si occupi solo di
fantasie, ma forse dice la verità”. E’ un’espressione di
quella antica ruggine tra filosofi e poeti ricordata dal Socrate di Platone o avvertita
dall’Ulrich di Musil.
Pereira
fa un altro incontro che lo spinge verso il disseppellimento della
propria identità, inumata sotto ricordi e rimpianti, e coperta dalla
vegetazione di questi vani pascoli degli spiriti disoccupati. Si
tratta di una signora, una ebrea-tedesca di origine portoghese, una
cosmopolita dunque, incontrata in treno, che lo mette di fronte ai
suoi doveri: “lei è un intellettuale, dica quello che sta
succedendo in Europa, esprima il suo libero pensiero, insomma faccia
qualcosa”. Pereira replica che lui non è Thomas Mann, ma la donna
lo incalza: “Capisco, ma forse tutto si può fare, basta averne la
volontà”.
Segue l’intesa e
l’amicizia con un medico della clinica talassoterapica dove Pereira
va a curarsi. Il giovane dottor Cardoso, che si diletta di
letteratura francese e di psicologia, gli parla dell’evento, un
avvenimento imprevisto “che si produce nella vita reale e sconvolge
la vita psichica”. Sono quegli
avvenimenti accidentali di cui parla Lucrezio .
Non
si tratta di qualità congiunte ai corpi (coniuncta),
come il rosso del sangue per esempio, ma sono accidenti che
certamente influiscono sulla nostra vita. Lucrezio enumera alcuni di
questi eventa:
la schiavitù, la
povertà, la ricchezza, la libertà, la guerra la concordia. Gli
eventi di Pereira sono questi incontri con persone significative, che
lo colpiscono, cui presta attenzione. Il dottore gli insegna pure che
dentro di noi c’è “una confederazione di anime e che ogni tanto
c’è un io egemone che prende la guida della confederazione”.
Pereira
un poco alla volta prende coscienza di un suo nuovo io. Intanto il
regime di Salazar diventa sempre più spudorato e feroce. Manda in
Spagna, a combattere per Franco, un battaglione, intitolato a Viriato,
usurpando il nome del capo dei Lusitani ribelli ai Romani poco dopo
la metà del II secolo a. C.
Il
fatto risolutivo però è l’assassinio del ragazzo Monteiro Rossi
nel quale Pereira vedeva quasi il figlio mancato suo e della moglie
morta con la foto della quale parlava mentre lei lo guardava “con
un sorriso lontano”. Se avessero avuto un figlio il vecchio
letterato, l’umbraticus
doctor, si sarebbe
sentito meno solo e meno desolato. Tre tangheri dunque irrompono in
casa di Pereira dove si era rifugiato Monteiro e ammazzano di botte
il ragazzo. Quindi intimano al giornalista di non parlare
minacciandolo di morte. E’ una sera di fine estate, e il vecchio
quella sera dimentica la sua prudenza, le paure, la sua
impoliticità, e concede il potere al nuovo io egemone, coraggioso e
battagliero, denunciando l’orribile crimine dei sicari del regime
con un articolo di fuoco che riesce a fare stampare e pubblicare con
uno stratagemma e con l’aiuto dell’amico Cardoso. Le ragioni del
cuore e quelle della testa si erano finalmente riconosciute a vicenda
e avevano fatto un’alleanza davvero santa.
Nella
scena finale del film di Faenza, Mastroianni-Pereira si avvia
rivitalizzato verso la libertà, probabilmente in Francia.
Sono
grato a Tabucchi e a Faenza poiché con i loro lavori hanno
contribuito ad accrescere la mia vita.
“Riforma
della scuola” n° 14